Ieri sera ho finito di leggere “Settantadue – #DialisiCriminale” di Simone Pieranni, edito dalla neonata collana di Alegre: Quinto Tipo. Un libro particolare, diverso dal solito, in cui il tema trattato non è la solita insoddisfazione borghese riguardo la propria vita che tanto piace alle case editrici contemporanee. No. E’ un libro che racconta che vuol dire stare 12 ore a settimana attaccati ad una macchina per dialisi e molto altro.
«La verità: il novantanove per cento delle persone non ha idea di cosa sia la dialisi. Allora a quel punto o spieghi o stai zitto. Io sto zitto»
Prima di spiegare cosa e perché mi sia piaciuto è giusto premettere che sono un (pessimo) amico di Simone Pieranni, che nella vita scrive per Il Manifesto dopo aver fondato l’agenzia giornalistica China Files in quel di Pechino. E non lo dico perché “aò anacapito so amico dello scrittore” ma perché è naturale che il mio giudizio tanto quanto le mie percezioni siano in qualche modo filtrate da un affetto e una stima che esiste.
Su Il Manifesto di domenica scorsa c’era una bella recensione di questo libro e del rapporto tra letteratura e malattia. Sul fatto che spesso e volentieri chi si è ritrovato a raccontare la propria malattia lo abbia fatto mettendo al centro la propria sofferenza, il proprio dolore. Simone non lo fa. A Simone “rode proprio il culo” come si dice nella “sua” nuova città. E’ rabbioso, incazzato, non vuol cedere un centimetro a una malattia che vorrebbe fargli rinunciare a parti importanti della propria vita. Ни шагу назад! (Nessun passo indietro!) ordinò Stalin nel 1942 e Pieranni non vuol farli. Non ne fa neanche uno raccontando questi ultimi 3 anni pari a 1728 ore, dieci settimane, da quando la sua vita indubbiamente cambiò.
Settantadue non ha una storia lineare. Mischia fiction, autobiografia, parti di inchiesta. A volte disorienta, anzi volutamente disorienta. La Macchina, Genova, Shangai, Roma, sono i piani in cui divide questo frammentato racconto. La rabbia tiene tutto insieme. La tenacia e la resistenza fanno il resto. E riesce anche a divertire, con quell’umorismo nero e cattivo (che a dire il vero ha sempre avuto), di chi tifa la “morte di quel vecchio che urla accanto” o dei racconti di criminalità del compagno di dialisi, ex affiliato alla Banda della Magliana. Perché nell’estrema sensibilità di Pieranni ce n’è una che più di ogni altra mi ha colpito: da Roma alla Cina, descrivendo ospedali, inservienti, dottori e malati, Simone riesce a cogliere quelle sfumature umane dei suoi compagni di viaggio. Sente i luoghi, riconosce le persone, ne intuisce le sfumature. Altrimenti non avrebbe potuto descrivere così bene, che sia fiction o no, quella Roma che neanche in infanzia l’autore ha vissuto, tra i baretti di Ostia e quelli di una Monteverde sparita, dove criminali e fascisti passavano il tempo tra una rapina e gli scontri con i compagni.
Ma non posso nascondere il turbamento che ho avuto in alcune pagine, soprattutto quelle più introspettive, quelle rabbiose, dove Simone sanguina, metaforicamente e non. Non siamo al punk dei “costretti a sanguinare” siamo nell’intimo di un uomo, di un amico, che ha scelto di raccontarsi. E a me questa intimità, fa scattare un senso di pudore enorme, come se stessi violando i segreti di una persona. Soprattutto se è una persona a cui ti senti legato. Limite mio, ci mancherebbe. Conoscere le paure delle persone, le loro angosce, la loro nudità mi crea questo. E quella rabbia che sentivo di condividere, di riconoscere, di sentire in parte mia, svanisce. Perché ci sono sensazioni, situazioni, dolori che non si conoscono e che anzi siamo fortunati di non vivere. Tutto ridiventa più piccolo, meno importante. Rimane solo una rabbia contagiosa che non fatichiamo a fare anche nostra.
«Dire, fare, baciare. Salvare la vita». E daje Simò.