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Kafka Sulla Spiaggia

Primo o poi dovevo arrivare a parlare di Haruki Murakami.

Dopo averlo scoperto per caso in uno dei miei pellegrinaggi in libreria e aver letto in pochi mesi tutto ciò che è stato pubblicato in italiano, appena è uscito ho acquistato e letto il suo ultimo romanzo: Kafka sulla spiaggia.

L’autore di Tokyo Blues e Dance Dance Dance ci regala un’altra perla, scritta nel 2002, ma pubblicata solo ora dalla Einaudi in edizione NON economica. Ma è sempre Murakami col suo stile inconfondibile, con un altro racconto inquietante, dalla disarmante semplicità che regala emozioni e sensazioni uniche, attraverso la fusione tra la narratica americana (di cui è traduttore) e la letteratura giapponese, con tutto il suo immaginario di miti e tradizioni.

“Umibe no Kafuka” è un viaggio onirico, tra reale e irreale, in cui Murakami ci accompagna, senza giocare con i lettori ma anzi scoprendo e sorprendendosi insieme agli stessi. E’ il racconto del cammino di Tamura Kafka, lo pseudonimo che si sceglie un 15enne in fuga dal
padre, e Nakata, un “vecchio stupido”, nella più piena accezione dostojevskiana
del termine, e dall’incredibile dono di parlare con i gatti.

Insieme a loro
troviamo Hoshino, un camionista che accompagna Nakano, così simile al suo
defunto nonno, nella sua ricerca; la sig. Saeki, che vive sospesa nel tempo in
attesa di morire; Oshima, il saggio bibliotecario androgino; e troviamo anche
la determinata gatta Mimì “Come Mimì della Bohème”, che aiuterà Nakata a
cercare un gatto scomparso; una prostituta che cita Hegel durante un rapporto
sessuale “Per me, io sono il sé e lei l’oggetto, naturlamente per lei invece è
esattamente l’opposto”, e il padre da cui Takamura fugge, famoso scultore, che
lancia una inquietante profezia nei confronti del figlio.

Ma in Tamura non c’è ribellione
ma un desiderio di pace e di quiete interiore che i suoi tormenti e la
maledizione del padre non gli consentono. Casomai c’è una certa dose di
fatalismo nell’andare incontro al proprio destino, in un disegno dove piano
piano si scoprono che tutti i personaggi che si incontrano ne fanno parte.

C’è tanto
Dostojevski, in Nakata, l’anziano “idiota” che non sa cosa siano le emozioni,
non sa né leggere e né scrivere e che non ha ricordi, ma provoca tanta
tenerezza in chi lo circonda e dalla semplice saggezza nei suoi surreali
dialoghi “che uno sia stupido o intelligente, che sappia scrivere o meno, che
abbia un’ombra intera oppure no, tutti, quando arriva il momento, dobbiamo
morire”.

C’è il teatro greco
, citato spesso e volentieri da Oshima per provare a raccontare e a spiegare,
le sfumature della vita e la complessità del dover scegliere a Tamura Kafka.

Il bravissimo
traduttore, Giorgio Amitrano ce li descrive così: “Tutti i personaggi di
questo romanzo sono, ognuno a suo modo, spiriti solitari che vagano lungo la
riva dell’assurdo, fragili individui esposti a tempeste di sabbia e a fulmini,
eppure sempre accarezzati e riscaldati dalla misteriosa luce della scrittura di
Murakami.”

Come in tutti in
tutti i libri di Murakami, la trama viene svelata passo dopo passo, senza
fretta, come una matassa che si sbroglia da sola, non c’è un tempo preciso
anche perché “il puro presente è il processo impercettibile in cui il passato
avanza, divorando il futuro”. I capitoli
alternano le vicende dei due protagonisti per poi fondersi nel finale.

Che altro aggiungere? Che al termine del libro ero dispiaciuto anzi direi proprio che nei giorni successivi mi è mancato. Mi è mancato Tamura quanto Nakata o la mitica gatta Mimì.

Infondo la forza di Murakami è proprio questa, finito lascia un vuoto.

“anche se
il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiù. Perché ci sono
cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo”.

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