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Zero zero zero

 Quando raccontavo che stavo leggendo Zero Zero Zero di Roberto Saviano, amiche e amici mi guardavano con sospetto. Non è difficile da capire: sapevo che il libro in questione non mi sarebbe piaciuto ma per criticare queste operazioni di pseudo inchiesta, senza essere superficiali, bisogna spenderci del tempo e sbatterci il grugno.

Io non ho finito questo libro. Intorno al 75/80% l’ho abbandonato, per un semplice motivo: mi stava annoiando a morte.
Oltretutto mentre lo leggevo mi è capitato di imbattermi in recensioni piuttosto ben fatte, soprattutto quella di Raimo.
Quindi molto è stato detto e non ho troppa voglia di ripetermi.
000 non è un libro di inchiesta. 000 non è neanche un romanzo o una fiction alla Romanzo Criminale. Non ha nulla del giornalismo, ma del resto Saviano non è Robert Fisk. E non perde occasione per confermarlo.

Roberto Saviano è diventato –forse suo malgrado?- il feticcio di un gruppo editoriale (Repubblica/L’Espresso), uno pseudo intellettuale della sinistra giustizialista, un noioso tuttologo costretto a scrivere di tutto, senza averne né i requisiti nè la preparazione. Gli studenti si scontrano in piazza? Ecco Saviano che mima il Pasolini di Valle Giulia. A New York nasce Occupy? Ecco Saviano mandato in trasferta a raccontare un mondo che non conosce. Saviano scrive di mafia? Anche se scrive delle cose inesatte non può essere criticato. Fino al Saviano fino Israele durante l’operazione Piombo Fuso tanto da scomodare Vittorio Arrigoni a cui il “profeta triste” (cit. di un mio amico) neanche si degnò di rispondere. Saviano vittima e carnefice di se stesso, dunque.

E tutti i difetti del Saviano “intellettuale” emergono in questo libro piuttosto pretenzioso che vorrebbe descrivere il mondo del narcotraffico e la sua storia attraverso alcuni paesi nodali per commercio e produzione, tanto che per i primi 2 articoli, l’autore sceglie di raccontare il Messico e la Colombia.
Ma come è possibile raccontare il narcotraffico in Centro America senza riuscire quasi mai a citare, non dico a parlare, delle politiche di contrasto al narcotraffico, soprattutto del Plan Colombia?
Eppure Saviano ci è riuscito: applausi. Non solo, nell’unica riga in cui viene nominato il PC scopriamo che grazie a queste politiche sono aumentati gli arresti. Anvedi.
Oppure sceglie una via al quanto discutibile, sempre nella parte dedicata alla Colombia, narrare la vita di colui che per primo diede via alle forze paramilitari che servivano a contrastare i guerriglieri brutti sporchi e cattivi che soggiogavano i poveri agricoltori. Mah.

Prendo questo spunto proprio perché trovo paradossale riuscire a scrivere centinaia di pagine, di cui alcune anche riuscite, senza citare una fonte che sia una (!) per narrare il mondo del narcotraffico e senza storicizzare politicamente e socialmente la sostanza cocaina.
Si parla della cocaina come sostanza performativa: vero.
Si parla della cocaina come la sostanza più trasversale possibile: vero.
Ma non ci si chiede il perché di tutto questo, niente.
Va da sé.
E invece un motivo c’è ed è abbastanza chiaro e semplice: la cocaina è la droga perfetta per il nostro turbocapitalismo. Il perfetto disgregatore sociale che tutto polverizza. I tempi moderni hanno bisogno della cocaina. La conferma del fatto è che sempre più viene assunta per lavorare e non per divertimento. Per reggere turni di lavoro massacranti, per produrre di più, per essere appunto più performativi. Non riconoscere questo non aiuta certo a capirne il massiccio uso che ormai se ne fa, in Italia tanto quanto in moltissimi altri paesi. Soprattutto quelli più ricchi, nonostante la cocaina ormai sia diventata una sostanza accessibile a ogni fascia di reddito.

“Non è l’eroina che ti rende uno zombie. Non è la canna che ti rilassa e ti inietta gli occhi di sangue. La coca è la droga performativa.”

L’enfasi che accompagna le centinaia di pagine, la riassumo in questa riga. Fastidiosa e inutile in ogni momento, mi ha confermato quello che ho sempre pensato: Roberto Saviano non è un bravo scrittore. Ce ne stanno a decine e quindi la cosa non mi infastidisce affatto ma credo che sia un dato oggettivo. Mentre consumavo pagine e pagine mi veniva in mente il performativo Saviano, sotto effetto della “sua cocaina”: l’enfasi. Botte su botte fino a consumarsi lui stesso, che se fossi stato accanto a lui durante la scrittura gli avrei detto “Aò Robè, placate, fatte na canna”. Non so cosa rimarrà nel lettore una volta finito questo libro che non può aver trovato avendo letto uno dei tanti reportage o articoli che appaiono su un settimanale come Internazionale. Continuo a pensare che esistono romanzi come “Il potere del cane” che senza la pretesa dell’inchiesta giornalistica, riesce con lucidità a raccontare il narcotraffico in e dal Centroamerica. Ma soprattutto non serve avere l’approccio filo-proibizionista avuto da Saviano per quasi tutto il suo libro. Forse la colpa più grave e la sensazione più sgradevole che rimane alla fine di questa noiosissima lettura.

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