[Ha ragione il mio socio, sono una brutta persona. Scrivo qui sopra ogni morte di Papa, e il Pastore Tedesco sta toccando ferro, che mancano pochi giorni al termine del suo contratto]
Giugno 1960.
Fra i fiordi dell’Islanda nord occidentale, al largo dell’isola di Flatey, una famiglia di pescatori trova un cadavere: il corpo è quello dello studioso danese Gaston Lund che da anni cerca di interpretare il mistero dell’enigma del libro di Flatey, basato sulle saghe della mitologia nordica e custodito nella biblioteca della piccola isola.
Nelle sue tasche solo un foglio con una sequenza di 39 lettere e il fitto mistero che disegna una trama antica, che parte da lontano, dai canti dei bardi e dall’epopea dei vichinghi e arriva agli anni della Guerra Fredda nell’Islanda più rurale e inospitale.
Toccherà al giovane assistente del prefetto Kjartan sbrogliare la matassa, fra i silenzi e i segreti che la piccola isola porta con sé.
Stiamo parlando della parte più estrema dell’Europa e della sua periferia, di venti freddi e civiltà antica, ancorata alle sue usanze ancestrali: la distanza fisica fra questo angolo di Islanda e il resto del mondo é ancor più amplificato dai ritmi lenti, ripetuti, dei pescatori e degli allevatori di queste isole.
L’isolamento geografico e culturale di quegli anni é dato da un romanzo preciso, asciutto, quasi didascalico (ma senza fare sfoggio di alcun vezzo o autocompiacimento) dove l’enigma é un pretesto per disegnare un affresco di un’epoca e di un luogo, fermato su carta prima che cadere nelle nebbie dell’oblio. È il romanzo dei luoghi dello spirito dell’infanzia dell’ autore, Viktor Arnar Ingólfsson (che contende ad Arnaldur Indridason la palma di miglior giallista islandese), di un’isola ordinata e suggestiva, semplice ma al contempo misteriosa.
In questo libro ci sono gli echi gloriosi degli eroi del passato con le loro vicende di passioni violente e di colpi di spada, c’è una natura alla quale ci si può solo piegare come un giunco al vento e il senso di malinconica rassegnazione di chi nasce e si trova costretto a vivere in un’isola minuscola, con l’unica prospettiva di fuga di trasferirsi in un villaggio di un migliaio di abitanti o nella capitale, Reykjavík (120.000 abitanti).
La concezione dello spazio nel romanzo è molto limitata: solo nella narrazione delle saghe i luoghi sono indefiniti e vasti, per il resto la vicenda e il contesto storico geografico intrinseco sono delimitati in punti precisi, quasi claustrofobici. L’isola di Flatey, il suo piccolo arcipelago, i villaggi sulla terraferma, la capitale, l’Islanda, la Danimarca e la Norvegia (in quanto i Paesi che per strette ragioni storiche hanno avuto gli scambi più frequenti con l’Islanda).
La vicenda narrata prende a pretesto l’omicidio del professor Lund per andare oltre, per riportare uno spaccato quasi antropologico di una società ormai perduta, cancellata dalla globalizzazione e da internet, un esercizio di memoria dove si possono trovare gli odori pungenti della torba, del guano, dell’aria salmastra e una corona di personaggi semplici, umili, concreti.
Terra di confine, l’Islanda, geograficamente parte dell’Europa ma pure così isolata.
Il libro – edito da Iperborea – scorre via senza la frenesia dell’azione a tutti i costi, senza pistole o inseguimenti, con un ritmo sincopato dettato dal cambiare dei venti, dalle maree, dai viaggi settimanali della nave postale, permeando le pagine di un’atmosfera di mistero, sospesa fra la terra, il mare e gli spazi immaginari delle antiche saghe.
PS: dimenticavo. E’ vero, è un “giallo nordico”, categoria nella quale si annidano numerose cagate di dimensioni immani e che fino all’anno scorso aveva un hype fatto da buone statistiche di vendita, ma – vuoi l’ambientazione particolare – è un prodotto letterario migliore di certe boiate che mi sono trovato a leggere