Avevo bisogno di un libro “importante”, un libro che desse un po’ di svolta ad alcune letture non propriamente esaltanti di questo periodo, nonché mi serviva qualcosa per giustificare il mio ritorno sul blog senza sentire gli improperi di quella scimmia del mio Socio.
Ci voleva un contesto come quello della Louisiana appena prima dell’uragano Katrina per inchiodarmi a dovere alle pagine: l’unico Stato USA dove le contee sono ancora chiamate parrocchie, un mix di cultura francese, tedesca, afroamericana e caraibica speziato e piccante come alcuni piatti cajun.
Terra antica, di colonizzazione difficile, dove il Mississipi si getta nel Golfo del Messico creando il bajou, una foresta pluviale di “confine” fra terra, fiume e oceano.
Dave Robicheaux è uno sceriffo del dipartimento di New Iberia, cittadina a 100 miglia da New Orleans, sposato con una ex suora e dal passato difficile, fra problemi con l’alcool e lavori precari.
Quando arriva in città Trisha Klein, figlia di un vecchio amico e collega di Dave (ucciso durante una rapina), iniziano i problemi: Trisha è una truffatrice di professione, frequenta i casinò e vuole vendicarsi degli assassini del padre.
L’America narrata è ancora una volta quella della periferia, degli sfigati, dei perdenti. Un’America dimessa, con gli occhi pesti e gonfi: Burke riesce a dare alla perfezione il senso di tutto questo, riesce a descrivere la povertà dove lo sceriffo Robicheaux si muove dando nel contempo affreschi molto vividi della natura circostante, colorata e violenta.
C’è un senso di tragica attesa che permea tutto il libro, di attesa rassegnata per qualcosa. Per l’uragano Katrina o per l’ineluttabilità del corso della vita. Si respira l’aria tesa e gonfia prima del temporale, in una regione dove le discriminazioni e l’odio razziale non sono superate, e in questo romanzo di Burke si percepisce anche la divisione data dal capitalismo: da un lato i bianchi, ricchi, che mandano i propri figli nelle università più prestigiose e si affiliano a “confraternite” dal vago sentore di lenzuola bianche e croci incendiate spalleggiati da telepredicatori evangelici; dall’altro i neri, i creoli e i sanguemisto poveri e costretti ai ghetti e alla vita di strada.
In mezzo personaggi come lo sceriffo e il suo ex collega Clete, personalità complesse e ben disegnate che cercano (o cercavano, nel caso di Robicheaux) di scacciare i demoni della vita con l’alcool, bianchi ma con la giusta empatia verso la comunità nera.
Un libro spesso nel senso più alto del termine: la vicenda della truffatrice Trisha si va a incastonare alla perfezione con il suicidio di una ragazza e la conseguente striscia di sangue che si porta dietro, descrivendo uno spaccato di società americana non certo da serial tv, molto poco metropolitano e allo stesso tempo violento e vero.
Raramente nella letteratura “di genere” si trovano descrizioni così minuziose senza comunque essere stucchevoli o leziose, personaggi delineati alla perfezione senza essere macchiette: un libro pienamente riuscito, ottimo mix fra pistole, cazzotti e paesaggi, fra la disperazione data dalla povertà e l’alcool, il razzismo di fondo della società americana e l’arrivo di una catastrofe imminente.
“Quando si diventa degli ubriaconi di infima categoria, si scopre che i luoghi più sicuri per bere, a patto che si conoscano le regole, sono i saloon da proletari, le sale da biliardo, i locali sperduti nella campagna e i bar clandestini in cui i due terzi degli avventori hanno la fedina penale sporca.
I lussuosi bar degli hotel e i locali per ricchi hanno un basso livello di tolleranza nei confronti degli ubriaconi e ti sbattono fuori e chiamano la sicurezza prima ancora che ti possa sbronzare seriamente. Quando invece ti ubriachi in un buco di merda, puoi bere fino a perdere il possesso delle tue facoltà mentali senza essere disturbato da nessuno, ma solo se sai che la privacy altrui è inviolabile. Gli emarginati sono disposti a tutto pur di evitare il confronto. Violenza per loro significa ferite che potrebbero anche portare alla morte, cauzioni da pagare, condanne in tribunale e perdita del lavoro. Può anche significare il ritorno in galera o ai lavori forzati. Agli emarginati non importa assolutamente niente dell’opinione che puoi avere di loro. Le uniche cose che ti chiedono sono di non violare i loro confini e di non fingere di capire quello che hanno passato”.