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Submarino

 Il primo libro terminato in questo 2012 è un romanzo comprato un po’ per caso. Avevo scaricato il film che ne è stato tratto perché mi piace il regista, Thomas Vinterberg, finché casualmente all’usato, non ho trovato anche il libro stesso. A dire il vero non pensavo che Submarino venisse da un romanzo del piuttosto giovane Jonas Bengtsson.

Mi sa che ho già scritto da qualche parte la diffidenza che ho nei confronti dei giallisti scandinavi eppure ho voluto dare una chance a questo autore. Del resto se Vinterberg, che è uno che stimo, ne ha tratto un film, sarà un buon romanzo.
Io l’ho finito stanotte e non so che pensare. La prima parola che mi viene in mente, e che spesso ho usato a chi mi chiedeva che libro fosse, è tosto.

Due fratelli divisi, un passato piuttosto difficile e border-line alle spalle e un presente per niente semplice. Il primo dei 2, Nick, è un culturista alcolizzato, vive ai margini della società, tra la palestra e i chioschi dove acquistare alcolici, dorme in un ricovero per emarginati offerto dallo stato stesso, ha una sottospecie di relazione con Sophie, una sua vicina di stanza.
L’altro è tossicodipendente e ha un figlio. Un passato di eroina alle spalle, che sembrava concluso con la nascita di Martin ma ripreso subito dopo la morte “accidentale” della compagna e madre del bimbo. Lavori saltuari per pagarti lo schizzo quotidiano, il tutto senza farsi scoprire dai servizi sociali, col rischio di perdere il bambino. Non ha altro nella sua vita.
Conducono vite separate finché la malattia della madre non li fa riavvicinare.

Submarino è un titolo piuttosto esplicativo, è il nome che viene dato ad una tecnica di tortura, quella di immergere la testa dell’acqua fino a provocare il quasi soffocamento.  Il libro è lungo, lento e freddo come sa essere fredda una città come Copenaghen. I due protagonisti si raccontano in prima persona e Bengtsson li accompagna con una narrazione che segue il flusso di coscienza dei due protagonisti. Al centro ci sono i pensieri di due uomini ai margini della società, dove sono cresciuti e tuttora vivono. Gli affetti non esistono, i sentimenti sono qualcosa che hanno sempre mal coltivato, violenza e sopraffazione sono un linguaggio che conoscono bene, troppo bene per riuscire ad alienarsi. E l’autore li accompagna attraverso queste lente 400 pagine verso un declino inesorabile, scritto nel destino, come se il tutto fosse inevitabile. Di sfondo c’à la Copenaghen che non ti aspetti, quella dei tossicodipendenti, dei barboni, da far impallidire lo Zoo di Berlino di Christiana F.

E non posso nascondere che ho faticato anche io nel leggerlo. D’altronde l’autore non voleva regalare un romanzo di denuncia o un noir di eroina e polizia. C’è la lentezza della giornata di un tossicodipendente, ci sono i sentimenti deviati di chi amore ne ha avuto poco, c’è chi vive senza neanche resistere o sognare più. Un romanzo maschio perché poche sono le donne che si affacciano nella trama. Semplici comparse, spesso vittime della violenza maschile tanto quanto dell’eroina.
Non è una lettura semplice almeno fino all’ultima parte dove un po’ di pathos accompagna la narrazione e lo svolgimento della storia. Ma è probabile che sia proprio la parte finale a cambiare il mio giudizio e a farlo diventare più che positivo. Anche se probabilmente non modificherà la mia avversione per gli autori scandinavi. Anzi.

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