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Suttree

D’estate si ha il tempo per affrontare qualsiasi romanzo. Le lunghe giornate oziose sono perfette per leggere tutto quello che durante l’inverno si è messo da parte perché magari si ritenevo “troppo impegnativo”. E così è stato anche per Suttree di Cormac McCarthy, giudicato un autentico capolavoro al pari dei grandi classici americani.

Knoxville, anni 50. Lungo il fiume alla periferia della città vive Suttree. Vive di pesca, almeno finché non arriva il rigido inverno. E’ fuggito dalla sua precedente vita, che verrà in parte svelata durante il racconto. La sua è una vita povera tanto quanto i suoi compagni di bevute. Un breve periodo in carcere per ubriachezza a spezzare un’esistenza solitaria e placida. Attraverso questa figura, McCarthy ci racconta un’America rurale, povera, dove era ancora possibile morire di freddo o di tifo. Ci presenta una serie di personaggi fuori le righe: poveri, disperati, ladri, prostitute, ciechi, ubriaconi, truffatori, che tratteggiano con forza questa America di periferia, squallida in tutta la sua desolazione.

“Suttree guardò quel volto serio e tirato. Scosse la testa perplesso.
Sono tempi duri, più del granturco vecchio, disse Leonard. Perlomeno a casa nostra.”

E Suttree è uno di loro, uno degli esclusi, degli ubriaconi, nonostante il suo distacco esistenziale, la sua dignità. Dignità e umanità che non manca neanche negli altri personaggi del romanzo, tanto quanto la loro povertà. Ed è una narrazione lenta, fatta di splendide descrizioni di un ambiente che è tutt’uno con gli abitanti del luogo. Ruvidi quanto il loro clima, passionali o duri quanto le loro estati o i loro inverni. Nulla viene lasciato al caso e McCarthy non perde mai occasione per regalare un tocco di poesia anche nella disperazione più assoluta. In fondo questa è anche la bravura di un autore vero e di spessore. Alcuni passaggi, alcune descrizioni potrebbero essere anche ridondanti, ma d’altronde se non fosse per quelle pagine, se asciugassimo il tutto, avremmo davanti un romanzo di Bukowski, autore da me non particolarmente amato. Perciò i fumosi bar, le assolate e polverose strade, i bordelli o le case del lento e lercio fiume, prendono corpo e spessore grazie alla lingua dell’autore, a tratti magnifica.

“Una vecchia scritta su una vecchia insegna diceva vagamente che era vietato entrare. Qualcuno doveva averla girata perchè indicava il mondo esterno. Tuttavia lui proseguì. Dicendosi che era solo di passaggio”.

Eppure nonostante tutto questo, Suttree non è il capolavoro descritto dalle critiche, almeno secondo il mio punto di vista. E’ un romanzone decadente. Sicuramente scritto in maniera straordinaria eppure non funziona fino in fondo. McCarthy regala umanità ai disperati delle periferie, a coloro che girano alla larga dal mondo, che vivono ai margini senza velleità. Li mette di fronte a un Dio che li ha abbandonati o che più semplicemente non esiste proprio. Ridona dignità ai pazzi e ai poveracci. E attraverso la storia di Suttree forse prova a spiegarci che siamo, al di là di tutto, i protagonisti delle nostre vite. Anche quando abbiamo le spalle al muro, siamo pur sempre noi, e soltanto noi, a scegliere di che vivere o di che morte morire.

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