Durante il soggiorno berlinese mi sono letto tra una pausa e l’altra Vite Bruciate di Dominque Manotti. Magari c’è chi si sorprenderà soltanto all’idea di leggersi un libro in 3 giorni di vacanza, ma provateci voi a partire con il Re dei Loffi, di cui per ragioni di privacy non dirò il nome.
Ora per fare il figo vi dirò pure che questo genere di romanzo a cui si rifà la Manotti si chiama “polar”, cioè una via di mezzo tra un noir, un poliziesco ma soprattutto di denuncia sociale. Eh sì perché l’autrice non è soltanto una ex insegnante di storia economica ma una donna che ha fatto della militanza e del sindacalismo il percorso della propria vita. E nei suoi libri traspare tutta la brillantezza di questa anti-Vargas (per stile non per altro!) e tutta la sua voglia di usare lo strumento della scrittura per proseguire il suo impegno civile e politico.
“Questo è un libro scritto prima della crisi e affonda in pieno nel meccanismo problematico per cui lo scopo di chi dirige le imprese è fare soldi e NON produrre ricchezza. Tutti conoscono questo meccanismo di produzione dei soldi e nessuno è stato sorpreso dalla crisi: è un processo che va avanti da anni. E io da anni cerco di scrivere di questa crisi. La fabbrica che è al centro del romanzo è stata messa in Lorena unicamente per avere delle sovvenzioni e non per produrre. Produce soltanto una classe operaia persa, perché sa benissimo che non produrrà niente.”
Siamo in Lorena, dove dopo l’ennesimo incidente in fabbrica e il licenziamento di una lavoratrice, gli operai e le operaie decidono di occupare lo stabilimento. La proprietà è di una grande multinazionale, che proprio in quei giorni sta trattando l’acquisto di un altro marchio. Ignari della corruzione, dei finanziamenti europei che spariscono, delle frodi ai danni di loro stessi, gli operai si troveranno ad affrontare una situazione inaspettata che procurerà un’accusa di incendio doloso per uno di loro e altri sviluppi che non sto qui a raccontarvi. Sullo sfondo si muove l’ex poliziotto e ora detective Montoya, incaricato di trovare il bandolo della matassa su cio’ che davvero nasconde lo stabilimento. E’ la globalizzazione, con le sue delocalizzazioni, i suoi finanziamenti a pioggia per industrie che continuano ad andare in perdita, territori che perdono la loro identità operaia, tutto molto prima della crisi che si è abbattuta sul vecchio continente.
E la Manotti è brava a raccontarcelo, con una trama veloce, nervosa, piena di tensione, che usa a pretesto per denunciare “vizi e costumi” del capitalismo neoliberista. Un romanzo che fila via in pochissime ore e non vi aspettate il finale all’americana dove tutto si sistema e dove regna sempre la speranza.
“Non voglio regalare per forza qualcosa di positivo ai miei lettori – precisa l’autrice francese, cinque titoli pubblicati in italiano e una vita da sindacalista alle spalle -, preferisco lasciare spazio a conclusioni diverse”.
Ps
avevo dimenticato che il mio socio lo aveva recensito un paio d’anni fa: http://opinionista.noblogs.org/post/2009/05/06/vite-bruciate-dominique-manotti/