Diciamo che in questi giorni ho avuto e avrò molto tempo libero: il complotto demoplutomassogiudaico unito alle forze oscure che controllano il signoraggio hanno realizzato il loro piano diabolico, facendomi scivolare e mettendomi ko per almeno due mesi.
Nel frattempo devo ringraziare le viti di Herbert per tenere insieme la mia testa del femore e i compagni e le compagne del reparto di traumatologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo per le amorevoli cure (sorvolando sulle battute sul mio peso) e per gli oppiacei.
Detto questo dato che ho avuto parecchio tempo per dedicarmi in posizione distesa alla lettura mi sono messo a leggere anche un libro che avevo comprato per poi snobbarlo e lasciarlo nelle “zone basse” della pila di tomi che sta sul comodino.
Si tratta di “la dea cieca” di Anne Holt, edito da Einaudi nell’operazione di occupazione di quello spicchio di mercato che va sotto il nome di “noir scandinavo”.
Faccio una considerazione personale ma che so condivisa dal mio Socio: il giallo scandinavo è come il burlesque.
Sopravvalutato.
Aveva iniziato la Marsilio con i libri di Henning Mankell, buone letture, solide e con quel pizzico “esotico”: non erano più le grandi metropoli o lo Stivale a fare da sfondo a storie criminali ben disegnate, ma bensì la provincia svedese, patria di Glenn Peter Strömberg e del Barone Liedholm.
Le avventure del commissario Wallander hanno fatto da apripista a una vera e propria invasione di produzioni nordiche, alcune azzeccate e altre meno ma che a quanto pare hanno preso una buona fetta di mercato.
Ora, il troppo stroppia evidentemente: se già quest’estate mi ero imbattuto in un pessimo libro svedese del quale ho rimosso anche il titolo, a sto giro mi sono affidato alla norvegese Anne Holt per questo “la dea cieca”.
L’autrice mette da parte i suoi protagonisti più fortunati (Vik e Stube) per presentarci una nuova investigatrice: la bellissima, bravissima, intelligentissima Hanne che si troverà alle prese con due morti che sembrano non aver a che fare nulla fra loro [salvo che un lettore medio dopo le prime 50 pagine capisce già dove andrà a parare].
Un piccolo spacciatore massacrato da un ragazzo olandese reo confesso [e spaventatissimo] e un avvocato.
Il tutto sullo sfondo di una Oslo dipinta in maniera abbastanza banale e senza appeal, togliendo la marcia in più che autori come il sopra citato Mankell hanno, ovvero la descrizione minuziosa e accattivante del Grande Nord [mica la Padania, eh].
Anne Holt ci fornisce una Oslo molto impersonale, grigia non tanto per le caratteristiche intrinseche della città ma quanto per la piattezza della scrittura della Holt: è Oslo ma potrebbe essere Monza, Avetrana o Rieti…
La trama si svolge noiosa fra i palazzi del potere e le strade di Oslo, fra corruzione e droga senza brillare nè in un dialogo nè in un personaggio: non basta proporre la novità di un’investigatrice omosessuale per scrivere un buon libro.
Da sbadigli.
PS: QUI trovate qualcuno che ce l’ha più di noi con i gialli scandinavi…
vedo solo ora: Il senso di Smilla per la neve è un bel libro ed ha – come dici tu – quel “taglio” che lo può fare entrare nella letteratura postcoloniale.
Pure Henning Mankell mi piace, per stare sul giallo scandinavo “classico”, ma siamo veramente invasi da una produzione scandinava non di livello e “globalizzante”…
Dimentichi Peter Høeg. Anche se “Il senso di Smilla per la neve” è un libro (avvincente) di difficile catalogazione, che, per certi versi, rientra nell’ambito della letteratura postcoloniale.