“L’uomo produce il male come le api producono il miele” afferma William Golding e nel suo Il Signore delle Mosche questo concetto è espresso e rappresentato nella maniera più forte possibile. Letto in pochi giorni la scorsa settimana, questo romanzo, scritto a metà anni ’60, vede al centro della scena un gruppo di
studenti inglesi precipitare su un isola deserta e sconosciuta mentre è in corso una guerra mondiale.
Il ritrovarsi senza adulti costringe i ragazzi ad autorganizzarsi per
la propria sopravvivenza. Ma non c’è nessun Robinson Crusoe e nemmeno
Venerdì. La situazione precipita velocemente e diventa nera come i
temporali che potrebbero abbattersi sulla disabitata isola di Golding.
Nessuna
speranza per gli uomini così come per i ragazzi, dai più grandi ai più
piccoli, che retrocedono velocemente sopraffatti dalla cattiveria,
dalla paura, dalla superstizione, dalla prevaricazione, tutte
caratteristiche che dovrebbero appartenere solo al “mondo adulto”. Ma
infondo le regole che provano a darsi è solo uno scimmiottare, una
rappresentazione, di un sistema che loro ingenuamente credono
infallibile ma che non potrà che sfaldarli come gruppo prima fino in un
finale di delirio tribale e violenza selvaggia.
Golding è
l’anti-Rousseau che credeva che l’uomo, buono per natura, sarebbe
corrotto dalla societa mentre per lo scrittore inglese è esattamente il
contrario, se l’uomo viene abbandonato a se stesso non potrà che
produrre soltanto che il peggio di se stesso. Io che non sono nessuno
non sono d’accordo con nessuno dei due anche se penso che infondo tutte
e tutti noi siamo tendenzialmente degli stronzi.
Il romanzo
invece è di facile lettura, nonostante non risparmi niente e abbatta
con un’accetta i canoni del “romanzo di formazione”. Io l’ho letto la
scorsa settimana in 2/3 notti visto che mantiene un ritmo che mi ha
costretto a fare un po’ troppo tardi anche per i miei gusti.
T’avrà messo ansia la testa di maiale che ho appoggiato fuori da casa tua… ;P