John Banville è di sicuro autore prolifico e interessante: premiato con il Man Booker Prize nel 2005 per il suo romanzo “Il mare”, adotta come pen name per le sue incursioni nella letteratura “di genere” lo pseudonimo di Benjamin Black, scelta pensata e matura che viene dalle riflessioni dell’autore sulla “duplicità” dello scrittore e non come trincea dove nascondersi quando si passa da una narrativa ritenuta “alta” al romanzo giallo, scelta che spezza la continuità fra “autore” e “scrittore”.
In realtà tutti i romanzi della serie dell’anatomopatologo Quirke (in Italia, sempre per i tipi di Guanda, sono usciti anche “Dove è sempre notte” e “Un favore personale”) hanno, nell’edizione originale, il nome di Black ma la casa editrice milanese (seppur fondata originariamente a Modena) questa cosa la omette con disinvoltura, forse perché il nome (il “brand” mi viene da dire) è – giustamente – ormai affermato per il numero e la qualità dei suoi libri anche in Italia.
Siamo sempre nella Dublino degli anni ’50, con le sue atmosfere nebbiose, grigie e fredde e la scrittura di Banville si adatta al contesto e ai personaggi che si muovono sullo sfondo della capitale irlandese: se la narrativa di Banville è asciutta, precisa e rigorosa, lo stesso protagonista (Quirke) vive le sue debolezze e i suoi tormenti in maniera composta, “anglosassone”, senza tracimare nella passionalità ma – se proprio – cadendo a tratti nell’abbraccio caldo e appiccicoso del whisky.
April Latimer, giovane medico in carriera di ricca e potente famiglia (lo zio è ministro), sparisce improvvisamente e nessuno – tanto meno i familiari – sembra preoccuparsene, non fosse per l’amica Phoebe che coinvolge il padre, Quirke appunto, nella ricerca.
Personaggio poliedrico e umanissimo ma – come dicevo prima – con un aplomb abbastanza rigoroso, il medico legale si troverà a insinuarsi nelle pieghe – strette – di una famiglia in vista che ha sempre liquidato April come “un problema”, facendo saltare alcuni legacci di un gruppo familiare all’apparenza coeso e brillante.
I sospetti iniziali vertono su un compagno di studi di April e Phoebe, un giovane studente nigeriano molto chiacchierato, capro espiatorio fin troppo facile per l’Irlanda degli anni ’50 e i primi sguardi interrogativi di Quirke e dell’ispettore Hackett si rivolgono su di lui all’interno della cerchia di amici della ragazza dove si trovano a indagare, ma il cerchio, piano piano, si allarga e va a toccare la famiglia che cerca di insabbiare e tacere la sparizione, soprattutto quando vengono ritrovate nella stanza di April tracce di sangue che fanno pensare ad un aborto.
Toccherà a Quirke – che dopo la disintossicazione dall’alcool inciampa comunque più volte nella bottiglia – sbrogliare la matassa e metterci la faccia con la famiglia Latimer, oltre che finalmente costruire una relazione (seppur difficile) con la figlia Phoebe e imparare a guidare l’auto sportiva che ha comprato.
Le piovose atmosfere dublinesi sono affascinanti, la trama è solida e l’umanità di Quirke fa la sua parte, eppure mi trovo – come nei precedenti lavori della serie di Quirke – non pienamente soddisfatto, mi sembra che Banville faccia – per carità, bene – il suo compitino ma senza quel quid in più che, quando leggi l’ultima pagina, ti fa pensare “a quando il prossimo libro?”.