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Altai

Finito in una notte di pioggia e vento in dormitorio, quando le  molle del letto cigolano e stridono così tanto che non si riesce a  prendere sonno.
L’ho finito più tardi rispetto al mio "ruolino di marcia" con i libri di Wu Ming, sarà il carico di lavoro più pressante di questi ultimi tempi, saranno le solite diciottomila cose da fare.
Dopo averlo finito, un senso di inquietudine ha accompagnato le ore di dormiveglia al dormitorio, fino al ritorno alla realtà alle ore 5.35 con il solito ospite che tutte le mattine attorno a quell’orario scende e chiede che ore sono.
Se hai letto Q e prendi Altai come un suo seguito non solo fisico ma anche ideale ti resta un’inquietudine, un senso di sconfitta anche generazionale: leggendo Q ci eravamo inebriati con sanguigne battaglie in campo aperto, armate di straccioni ed eretici che combattevano il Potere costituito, qualsiasi esso fosse.
Moltitudine e metafora di quel "movimento dei movimenti" che dieci anni fa sembrava un uragano non solo pronto ad abbattersi sui vertici dei potenti, ma anche un nuovo modello reale e tangibile.
Vittorie e sconfitte, anabattisti e fuggiaschi, immedesimazione di un’intera generazione [parlo per me, quella chiamata dai media "noglobal", etichetta riduttiva e utilizzata tuttora da giornalisti privi di fantasia] nelle vicende di Gert Dal Pozzo e le sue molteplici identità e storie.
Ora, dieci anni dopo, lo scenario è cambiato: in Altai non ci sono più le moltitudini in marcia, non c’è una contrapposizione frontale ma molteplice, non c’è il senso di appartenenza a un "noi" collettivo ed esaltante di dieci anni fa, ma probabilmente è anche questo il segno dei tempi.
I conflitti sono più nelle pieghe della coscienza delle persone e nella storia personale e tormentata di Manuel Cardoso: forse è questo il senso di malessere e di brutale realismo che ho trovato leggendo Altai.
La messa è finita, non c’è più un "NOI"  al quale fare riferimento.
Wu Ming riprendono un continuum spaziotemporale rispetto a Q, miscelano un’ambientazione precisa ed accurata con il fascino quasi salgariano del romanzo d’avventura per aggiungerci un ritmo di narrazione sempre brillante e una grande profondità psicologica della varia umanità raccontata.
Dal centro Europa della riforma protestante si scende più a sud, prima a Venezia e poi sulle sponde del Bosforo in un Impero Ottomano più tollerante e multiculturale che la Serenissima Repubblica dei Dogi, quindici anni dopo le vicende di Q.
I pezzi di Storia narrati si incastrano alla perfezione, mantenendo il lettore in uno stato di tensione continua, riuscendo bene a alternare le parti narrative con quelle più introspettive: se in Q [il paragone con la precedente opera è obbligato] il sogno era una Gerusalemme Celeste in terra, in Altai l’obiettivo è Cipro nuova Sion per ebrei e fuggiaschi di ogni tipo: in entrambi il livello del "desiderio" si deve scontrare con la violenza del Potere, la crudeltà umana, gli interessi personali e politici.
Un libro possente che parte dalla cacciata degli ebrei da Venezia e arriva fino alla Battaglia di Lepanto incrociando scienziati siriani, Gert Dal Pozzo, pirati baresi e che riesce a toccare una serie di punti tremendamente attuali: intolleranza, ritorno alle origini, "guerre umanitarie", conflitti etnici e conflitti personali, il tutto senza mai perdere di vista la vicenda del protagonista assoluto [Emanuele De Zante/Manuel Cardoso] e di conseguenza del suo alter ego Giuseppe Nasi, le cui vicende si vanno a intersecare in maniera insistente durante tutto lo svolgersi della vicenda.
Forse che quel senso di malessere e di sconfitta aiuti a scuotere dal torpore?

 

ps: a 10 anni esatti dall’inizio della rivolta di Seattle forse ho centrato parte del quadro…

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