Dopo quanti romanzi bisogna alzare bandiera bianca e affermare definitivamente “Ok questo autore non fa per me”? Lo dico perché credo sia ora che io lo dica per Jo Nesbø, ne ho avuto la conferma leggendo il suo ultimo libro “Il cacciatore di teste”.
Già ho avuto modo di dire che evidentemente i giallisti nordici, per qualche oscuro motivo, mi risultano abbastanza indigesti. Strano, perché poi penso di essere capace di fagocitare un po’ tutto. Tranne loro, appunto.
Il cacciatore di teste sembrava promettere bene: Robert Brown lavora per le maggiori multinazionali in circolazione e il suo compito è quello di selezionare, non il personale, ma coloro che andranno a guidarle. Nel tempo libero finanzia la galleria della moglie, ma soprattutto è un ladro di opere d’arte. Professione che svolge all’insaputa di tutti per poter mantenere il suo stile di vita. Una routine singolare che, tuttavia, scorre senza imprevisti, finché Brown non conosce Clas Greve, candidato per un importante lavoro e possessore di un prezioso quadro di Rubens considerato disperso. Quest’incontro rivoluzionerà la sua esistenza. E non solo.
“Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.” pensavo nei primi capitoli, ma poi il romanzo prende una piega che onestamente non mi è piaciuta. C’è tutta una parte dedicata proprio al mondo delle multinazionali e dello spionaggio industriale che sembrava rendere piuttosto interessante la trama: segreti, truffe, spionaggio, l’altra faccia del capitalismo, quella che non viene mai mostrata. Ma poi…Ma poi la storia si trasforma nella sfida tra due dei protagonisti, con alcuni intorno a fare da comprimari. Succede che prenda la piega del thriller psicologico, del cacciatore che diventa preda per poi tornare di nuovo a cacciare. Un racconto dal ritmo serrato, che mostra tutto il mestiere di Nesbø, sia chiaro, ma che automaticamente lo trasforma in un thriller cliché. Roba letta e riletta che non credo fosse negli intenti dell’autore. Ho quasi la sensazione, confermata da una mia amica lettrice, che Nesbø cercasse un thriller di spessore, qualcosa di diverso da quanto ha prodotto finora. E non credo che questo romanzo lo sia.
La trovata finale mi ha lasciato piuttosto basito. No spoiler, ovvio, ma è stata la ciliegina su un romanzo deludente, non perché non si lasci leggere, ma perché ogni tanto serve uno scatto in avanti, qualcosa in più. Perché la scrittura è anche mestiere ma non è solo mestiere. Soprattutto in un genere super inflazionato come quello thriller o noir.