Il Canton Ticino dista relativamente pochi km da Bergamo: per arrivare a Lugano – la città più popolosa del cantone, nonostante la capitale sia Bellinzona – bisogna percorrere poco più di 80 km, affrontati in epoche più libertarie da ragazzotti bergamaschi in scooter per poter deliziarsi con i famosi “canapai”.
Ancor più vicinanza c’è culturalmente: con l’avvento dell’età industriale molti imprenditori svizzeri si impiantarono nella provincia di Bergamo e nel Dopoguerra numerosi furono i bergamaschi che varcarono il confine per andare a cercare fortuna in Svizzera e nutrita è la colonia orobica in Ticino, specialmente quella originaria della Valle Seriana (io stesso ho avuto parenti “emigranti”).
Strano che la Lega Nord si dimentichi spesso e volentieri di quando gli “immigrati” eravamo noi, clandestini e invisibili, come appunto in Svizzera, costretti a stare nascosti nelle soffitte: erano gli anni Sessanta, non secoli fa.
Sarà per questa affinità con il Ticino che ho trovato l’ultimo lavoro di Andrea Fazioli particolarmente piacevole e coinvolgente, una spanna sopra alle ultime uscite.
Chi non ha mai sognato di rapinare una banca svizzera? Se poi a farlo è un ex rapinatore professionista trasferitosi in Provenza e aiutato da Elia Contini, investigatore privato ticinese con la passione per le volpi la faccenda si fa interessante. Soprattutto se è per liberare la figlia di Jean Salviati – l’ex rapinatore – da un malavitoso che la tiene in ostaggio per alcuni debiti di gioco.
Una trama elegante nella sua semplicità, noir d’avventura ma senza manco un morto ammazzato, incentrata sulla costruzione della rapina in banca e sul rapporto – a distanza – fra padre e figlia, in un Ticino brumoso e descritto in maniera realistica.
La caratterizzazione dei personaggi è solida, la trama pulita, la scrittura asciutta ma non troppo secca, lasciando spazio alla costruzione di una storia verosimile.
Traspare un certo malessere di fondo, lo stesso che emergeva dalla precedente opera di Fazioli (giornalista della RTSI, la radiotelevisione della svizzera italiana), l’ottimo “L’uomo senza casa” (sempre su Guanda).
Un nonsoche di malinconico e viscido al tempo stesso, limaccioso e cattivo: non è la spietatezza disperata e totale di Manchette o di Ellroy, nè la cattiveria umana narrata dalla Vargas nell’ultimo libro (dove il vampiro è un’allegoria del “male” recondito nel genere umano), è un male mediocre, quotidiano, realistico.
Un unico dubbio: chissà se l’investigatore Contini tifa per l’Ambrì?
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Ho appena finito di leggere il libro in poco più di due notti insonni causa lavoro. Devo dire che mi è piaciuto molto. Certo, il libro non si addentra sugli aspetti psicolgici dei personaggi, non un’incrinatura circa la fedeltà del piano. Tutto perfetto, tutto mirabolante e contromirabolante. Un po’ più di umanità per dio. Alcuni personaggi sono usciti di scena senza dirci nulla. Pecccato!
Anch’io ho letto il romanzo e condivido! prima di tutto non si riesce a smettere di leggerlo, ti trascina una pagina dopo l’altra. Poi alla fine ti lascia qualcosa; a parte il Ticino brumoso e il malessere di fondo, anche una domanda su che cosa sia la libertà, per i rapinatori e la gente normale, e una riflessione su come nessuno in fondo possa mai essere solo…