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L’aspra stagione

 Se c’è un libro che più di ogni altro ho temuto in questi ultimi mesi è stato “L’Aspra Stagione” di Tommaso de Lorenzis e Mauro Favale. Il perché è piuttosto semplice, tutto ciò che riguarda gli anni 70 (68/80) mi mette profondamente a disagio, se poi cade nei giorni in cui i media nostrani sciacallano un po’ sui funerali di uno di quei, volente o nolente, protagonisti, almeno in parte di una buona fetta di quella storia, rischio di andare in corto circuito.

Facciamo un passo indietro. Un libro è un libro. L’altro passo indietro invece è piuttosto semplice: sono cresciuto e ho attraversato molti di quei luoghi descritti dal non-romanzo, quelli che vengono descritti come le sedi dei “duri”, dei “cattivi”, dei “violenti”. Ma la storia dell’Autonomia Operaia non è la mia storia. Assolutamente. Siamo solo i figli di quella generazione, nient’altro. Lo dico non per marcare differenze, non per prendere le distanze, ma semplicemente per una forma di sobrietà (che va tanto di moda) ma soprattutto di rispetto per una storia che non mi appartiene. Ho lo stesso sentimento quando si parla di qualsiasi area politica della sinistra extra-parlamentare, tanto quanto dell’esperienza della lotta armata. Lo stesso che ho nei confronti di molte parti della storia italiana, che leggo con avido interesse, cercando di capire quali meccanismi abbiano messo in moto a partire da eventi così forti e profondi.

“L’Aspra Stagione” è un libro sull’uscita dagli anni Settanta, sui mille modi per tirarsi fuori da un’epoca. È questo che lo rende tragico, forse nero, perfino al di là di Carlo Rivolta. Perché l’uscita da quella fase è costata la vita, oppure l’anima. In troppi hanno perso la prima. Molti si sono venduti la seconda.”

Carlo Rivolta è il personaggio usato come tramite per raccontare questa uscita. Carlo Rivolta è stato, un cronista del Paese Sera prima e poi voce e penna del ’77 per il neonato quotidiano La Repubblica, prima di essere scaricato dal quotidiano stesso nei primi anni 80, dopo essere stato abbondantemente usato. Carlo Rivolta, con la sua morte giovane e la sua tossicodipendenza da eroina, è a tutti gli effetti un figlio di quegli anni, quando “la roba” arrivò puntuale e scientifica e fece perfettamente il suo lavoro di decapitazione di una intera fascia di giovani e non. E che Carlo Rivolta sapesse scrivere bene mi è stato riconosciuto anche da un compagno che gli è stato ostile tanto che ancora oggi non ha fatica a definirlo “un infame”, senza cattiveria e senza malizia, perché il linguaggio di strada rimane immutabile, fedele nella tradizione. Tanto quanto il commento successivo è stato “Era molto bravo a scrivere e fece anche delle inchieste importanti come quelle sull’eroina. Raccontando spaccio e traffici di questa città. Peccato che poi della stessa eroina c’è morto”.
“Nemo propheta in patria” non so se sia il caso di dirlo ma un po’ c’azzecca. Per quanto fosse bravo, per quanto fosse anche attiguo e conosciuto al Movimento stesso, Rivolta si trovò tra incudine e martello: scriveva per un giornale della sinistra borghese, pur appartenendo a quell’area della sinistra extraparlamentare, che lui da buon cronista aveva scelto di descriverne pregi e difetti, schierandosi anche politicamente contro l’area più oltranzista, quella che andava da Autonomia Operaia fino ai gruppi armati. Questo mette a nudo come sia impossibile essere entrambe le cose: di lotta e di governo.
Non si può, è impossibile. E a un certo punto anche Rivolta dovrà ammetterlo.

Attraverso uno stile particolare che fa de LAS un ibrido tra romanzo e biografia, i due autori riescono a rendere interessante e battente il ritmo del tutto. Gli spezzoni degli articoli di CR sono accompagnati da alcuni commenti e racconti dei suoi colleghi dell’epoca, tutta gente che “si è venduta l’anima”, per citare un passaggio, ma che già all’epoca mostrava cenni di cedimento.
E a parte lo stile, che indubbiamente funziona, quello che mi ha lasciato perplesso è stato l’impianto politico del libro.

“Altrimenti le narrazioni diventano dei subdoli mezzi con cui sequestrare le emozioni di un fruitore passivo per spingerlo da qualche parte”

De Lorenzis in una intervista su Giap! pone questa questione con onestà. Io, invece, non sono convinto che loro siano riusciti a evitare questo. L’impronta politica, l’utilizzo di alcuni termini con cui vengono descritti quegli anni, di adeguano a ciò che scriveva Rivolta e la stampa in generale, allora come ora. E Repubblica descritta come una fucina di un nuovo quotidiano innovativo e grintoso, svuotandola della linea politica che invece ha drammaticamente perseguito (tanto da mettere nell’angolo lo stesso Carlo), mi sembra un’altra forzatura. Io non sono un fan della lotta armata, probabilmente non avrei avuto neanche il coraggio di parteciparne. Mi ha sempre incuriosito tutto il processo che si è messo in moto, dalla radicalizzazione della lotta fino agli Indiani Metropolitani, perché è capire quello che mi interessa non tifare. Ma leggendo Erri De Luca ieri, non posso non trovarmi d’accordo quando afferma che

“Terrorismo è l’atto di chi vuole distruggere e ter­rorizzare il maggior numero di per­sone indifese. Da questo punto di vista, considero terroristico il bom­bardamento di una città, da Guerni­ca in poi. Considero, invece, la lun­ga stagione della lotta armata in Ita­lia una faccenda che si distingue dal terrorismo per un semplice ri­sultato: il terrorismo che ha messo le bombe nelle banche, sui treni e nelle piazze è rimasto impunito. Ai suoi responsabili è stata garantita l’impunità mentre tutti quelli che io comprendo nella categoria della lotta armata sono stati identificati, processati e condannati. Questo è il mio vocabolario personale. Non pretendo che venga condiviso. Io la considero una piccola guerra civile. Piccola dal punto di vista del numero dei caduti. Ma non piccola se si considerano i militanti condannati per banda armata: sono stati incriminati in migliaia”.

E se nella prima parte proprio quando attraverso Rivolta si attraversa il triennio 75/78 sono stato un piuttosto infastidito, la seconda mi è scivolata meglio, soprattutto quando con il Teorema Calogero, calerà la mannaia su quello che è stato il movimento più diffuso, radicale, partecipato e controverso, della storia di questo paese. E qui il racconto di una generazione stretta da una parte dal binomio carcere/repressione e dall’altra dall’eroina, mentre il movimento implodeva, gli riesce bene, regalando quella sana angoscia che si dovrebbe provare anche semplicemente nel pensare alle migliaia di persone che ne sono uscite o con le ossa rotte o con una overdose che poteva addirittura sembrare liberatoria.
E mi rimane la sensazione che Rivolta non è stato semplicemente vittima di quegli anni, dell’eroina, dell’ostilità di parte del movimento e di alcuni gruppi armati che lo avevano minacciato, ma anche e soprattutto di quel giornale e di quella stampa, di sinistra e filo-Pci, che ha usato quando il suo cronista quando doveva porre le contraddizioni e raccontarne da vicino crepe e divisioni, per poi abbandonarlo quando quel movimento fu attaccato frontalmente e pretestuosamente, perché la “linea della fermezza” aveva vinto come esultavano Unità e Repubblica, sostenendo il Teorema Calogero, che invece CR criticò e mise in discussione.

Potremmo dilungarci e passare a parlare di ciò che era l’informazione mainstream e di ciò che soprattutto è. Di come dovrebbe essere un giornalista e argomenti collaterali, ma questa è tutta un’altra storia. Da raccontare certo, da smontare, non a nostro piacimento e soprattutto senza usare l’accetta. Perché poi il rischio di libri come questo, ben scritti e ben fatti, è quello di diventare un testo storico e di riferimento, un po’ come Romanzo Criminale ha sostituito nell’immaginario e nella cultura popolare, la storia ufficiale della Banda della Magliana. E invece quella del 77 è ancora una storia con cui non si è fatto i conti, agitata spesso per sventolarne qualche feticcio a proprio piacimento per urlare allarmi sociali che non esistono.

Sarebbe un peccato. Non credo piacerebbe neanche a un personaggio come Carlo Rivolta.

Posted in narrativa.


4 Responses

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  1. Lu says

    “quando “la roba” arrivò puntuale e scientifica e fece perfettamente il suo lavoro di decapitazione di una intera fascia di giovani e non”: e la fascia, quella politicizzata intendo, si lasciò fare perfettamente, bovinamente, con idiozia abissale, a gregge. Consumò e consumò e consumò. Eccheccazzo. Ma dove stavano la coscienza (politica), la consapevolezza, i neuroni, la lucidità, la fantasia, chessò. Possibile che si reagisse a lemming con la lungimiranza d’un amante deluso che si getta sulla bottiglia, roba da romanzo d’appendice. Ero piccolissima in quegli anni e non venivo da un ambiente particolarmente privilegiato né inquadrato, anzi, in famiglia erano tutti movimentisti in qualche modo, ma c’è sempre stato chiaro che non era il caso. Possibile che davanti al suicidio beota e sempliciotto di una generazione non si usi mai altro tono che eh, il trucco della reazione. Bisognerebbe se si sta in strada evitare di mettersi nelle condizioni di cascarci, nei trucchi più stupidi della reazione. Ricordo che già l’agenda rossa scriveva qualcosa di questo genere nel’76 più o meno. Chiedo scusa per il tono e per l’osservazione così parziale su un testo ben altrimenti interessante, ma questo argomento ha il potere di farmi uscire di senno, forse perché lo vedo trattato in modo sempre appiattito su un solo angolo visuale.

  2. TDL says

    Innanzitutto, grazie per la lettura, e per la recensione.
    Faccio giusto un paio di precisazioni, anche se – in questi casi – il precisare dell’autore vale poco, perché comunque è il testo che deve parlare (senza bisogno di aggiunte), e a contare è quello che rimane al lettore.
    La prima puntualizzazione riguarda il fondamentale impiego delle parole. Da un calcolo delle occorrenze, risulta che ne “L’aspra stagione” c’è una prevalenza dell’uso di formule come «partito armato», «lotta armata», «organizzazioni combattenti», «politico-militare» e via dicendo. Nei casi in cui termini come «terrorismo», «terroristi», «terroristico» vengono usati senza virgolette, fuori da citazioni testuali, la terza persona camuffa – o dovrebbe camuffare – la soggettiva di Rivolta. Questo per dire che, assolutamente sì, CR scriveva su «la Repubblica» di «terrorismo» e «terroristi», ma per gli autori de “L’aspra stagione” quel fenomeno è stato attraversato da una complessa dialettica interna, ha abitato la storia della sinistra comunista italiana e assolutamente non è liquidabile come “terrorismo”. E tuttavia, anche nel caso di Rivolta, l’uso di quelle parole – nel complesso – non altera la precisione delle analisi, l’attendibilità delle fonti, la fedeltà delle ricostruzioni. Basti pensare al lavoro di documentazione sullo scazzo interno alle BR nel dopo-Moro. Non fu l’unico a farlo, ma di certo lo fece bene. Da giornalista, lo fece bene. Da giornalista di «Repubblica» lo fece alla grande.
    Comunque può esistere uno scarto tra il punto di vista del personaggio principale d’una storia e i convincimenti, le posizioni, gli assunti di chi racconta la storia in oggetto. La prospettiva di un personaggio, poi, non esaurisce mai la pluralità degli sguardi.
    Rivolta è portatore di significativi conflitti drammatici (almeno a nostro avviso) e il suo agire muove da molteplici contraddizioni, scontri, rotture: con un pezzo di movimento, con il giornale su cui scriveva, con le Brigate rosse e le altre organizzazioni combattenti. Tutto ciò lo rende narrativamente interessante e problematicamente utile a sollevare questioni d’ordine generale riguardo alla maniera con cui i conflitti si raccontano (ovvero: vengono raccontati e producono narrazione autonoma), al rapporto tra movimenti e mezzi di comunicazione di massa, a quello che può accadere quando una realtà collettiva si sgretola e si aprono abissi e l’ordine del possibile collassa.
    Lotta armata, quindi, ma – aggiungo – non solo quella. Altrettanto convulsa, inquietante, problematica, nella vita di Rivolta, è la rottura con l’Autonomia romana e un’area consistente del movimento, dopo il 12 marzo 1977. Altrettanto insidioso è l’incipit del pezzo con cui il cronista racconta la manifestazione di quel giorno: «Un corteo grande, imponente, di più di cinquantamila giovani è stato distrutto, snaturato, distorto dai suoi obiettivi reali da gruppi di provocatori che hanno provocato incidenti a catena»… «Distrutto, snaturato, distorto»… «Gruppi di provocatori»… Schema impostato sulla distinzione tra maggioranza “sana” e frazioni minoritarie di esaltati violenti. Sono meccanismi che confuteremmo in ogni resoconto mediatico. Sono modelli politici e comunicativi che abbiamo contestato e continueremo a contestare ogni volta, perché introducono differenze surrettizie, artificiose, manichee, creando falsi discrimini e scomponendo realtà di massa. Però parliamo della stessa penna che, un mese prima, nel febbraio di quell’anno, stila una – se non la migliore – cronaca della cacciata di Lama: articolo che dà parecchi punti alle versioni ideologiche e pregiudiziali degli altri giornali. Ecco, questa – ad esempio – è un’altra contraddizione di cui crediamo valga la pena dire. Anche perché – tornando alla lotta armata – l’orientamento garantista di Rivolta dal ’78-’79 in avanti è un ulteriore elemento di complessità da non dare per scontato. Soprattutto in quella congiuntura.
    Infine, circa «la Repubblica»: credo che la ricerca d’interlocuzione con il lettorato comunista e col Pci sia restituita in termini espliciti, come pure il calcolo “commerciale” implicato nella linea tenuta nei primi due anni (’76-’77). Nell’essenza “laboratoriale” degli inizi, in cui sono inscritte aperture più o meno funzionali, “tattiche”, al movimento, è sempre presente una tensione strumentale e pure di mercato, per così dire. Non ci sembrava d’aver idealizzato un momento, di aver infiorettato una declinazione romantica dei “bei tempi andati” e del mito delle origini, né d’esser stati reticenti sulle svolte successive operate dalla direzione del quotidiano.
    Ad ogni buon conto, come dicevo prima, quando si parla di libri, le precisazioni degli autori non contano mai,

    TDL

  3. opinionista says

    Ripensando a come hanno trattato e come hanno scritto in questi giornali su Gallinari e i funerali, quotidiani come Corriere della Sera e Repubblica, si ha la sensazione che queste due testate abbiano fatto prima di tutto un’operazione politica: togliere quell’ultimo grammo di dignità politica che veniva riconosciuta ai “lottarmatisti” (brigate rosse in particolare) riducendo il tutto a un fatto criminale: la banda di assassini. Questo è grave non perché io sono un sostenitore della lotta armata ma bensì perché non spiega affatto come mai in quegli anni centinaia/migliaia di giovani abbiano preso in mano almeno una volta una pistola. Non aiuta a cogliere il senso di quegli anni, non aiuta la storia stessa.

  4. lorenzo says

    Io credo che quel libro sia non solo scritto bene, ma che racconti un passaggio importante della nostra storia. Lo fa attraverso la figura di Carlo Rivolta. Uno che – come scrivi anche tu – si era messo in mezzo in una storia che prevedeva di stare di qua o di là, e che quindi non è sopravvissuto. Molti allora non stavano né di qua né di là, ma quasi nessuno prese posizione come fece Rivolta. La storia che esce fuori dal libro è quella della fine delle illusioni, che iniziano a spegnersi con il regresso del ’77 da movimento di massa a gruppetti litigiosi più o meno armati stretti dalla repressione e soprattutto con i 55 giorni del rapimento Moro, che obbligarono tutti a stare “con lo stato o con le BR”. Il 7 aprile è solo la logica conseguenza, perché già un anno prima si era rotta quella “solidarietà” di fondo di cui godeva il movimento giovanile. La storia (parallela) è quella del quotidiano “La Repubblica”, giornale che nasce con uno “spontaneismo” ben descritto e che in Carlo Rivolta trova la penna che riesce a far dialogare un giornale borghese con quel vasto mondo di “movimento”, per poi buttare a mare tutto (il movimento, Rivolta, ecc.) con il rapimento Moro e diventare il giornale del Pci e della fermezza. Quella “svolta” è tuttora la cifra del quotidiano di Scalfari, giornale acquistato dalla gente di sinistra, sempre pronto ad accodarsi alla “fermezza” di turno (gli editoriali degli ultimi mesi di Scalfari che osannano a Napolitano e Monti sono tremendamente in continuità con la scelta operata nel ’78). Il fatto che Scalfari non abbia voluto collaborare con gli autori del libro, come più volte sottolineato, è un punto centrale per capire come poteva essere “Repubblica” e come non fu e non è, come poteva (forse) svilupparsi anche il movimento degli anni ’70 e come non si sviluppò.
    Poi il libro descrive bene i passaggi della società in quegli anni, attraversati da Rivolta in prima persona oltre che come giornalista, a cominciare dal dilagare dell’eroina.
    Ci sono alcuni limiti nel libro, ovviamente, alcuni passaggi descritti in modo superficiale e che possono infastidire (anche io ho avuto quella sensazione . Nelle parole di Rivolta (almeno quelle riportate nel libro) non ho trovato “infamie” gravi, solo un punto di vista che secondo me sarebbe utile ancora oggi per leggere quei passaggi, che poi si ripetono negli anni, forse ancora oggi nei movimenti, e che difficilmente si riescono a interpretare criticamente da chi ne fa parte. Il testo che ho riportato sul mio blog secondo me è uno di quelli più interessanti: http://www.salgalaluna.com/?p=557
    Sulle parole di Erri De Luca posso anche concordare, ma anche se non chiamo “terroristi” i lottarmatisti non mi è mai suonato che si facesse politica sparando sotto casa a un giornalista, un giudice o un “padroncino”. E la confusione tra chi si trovava in strada tutti i giorni negli anni ’70 per la lotta per la casa, per i trasporti o per il lavoro e chi agiva colla skorpion è stata troppo alta in quegli anni. Non dico che era giusto o sbagliato, dico che è stato così. E dico anche che per fortuna non si è ripetuta questa confusione nei movimenti degli ultimi decenni. Qual era la “guerra civile”? Quella delle brigate rosse o quella dei movimenti per le autoriduzioni? Gli studenti o “Prima linea”? I precari o i NAP? Tutti insieme? Sì, forse era così, ma non ha funzionato, e non solo per la “cattiveria” del Pci, di Scalfari e dei servizi, ma anche perché non poteva funzionare.