A distanza di 48 ore mi vado a leggere quest’altro romanzo a fumetti sempre sulla questione israelo-palestinese: Capire Israele in 60 giorni (e anche meno) di Sarah Glidden. E’ una giornata calda, con uno splendido cielo azzurro che fa da cornice allo sciopero generale di oggi.
Americana, ebrea e di sinistra, la Glidden partecipa a uno dei viaggi del progetto Taglit, agenzia che permette a giovani ebrei non israeliani di poter visitare il paese gratuitamente. Finanziata da privati, è evidente che il progetto nasce come strumento di propaganda morbida, dove mostrare l’immagine del paese sotto assedio, costretto a difendersi per poter sopravvivere. Ne nasce un fumetto un po’ lunghetto, abbastanza monotono, con diversi spunti sulla storia di Israele (e sul sionismo), disegnato alla Guy Delisle (o quantomeno mi ricorda lui).
“Così quando torniamo possiamo di aver incontrato un arabo felice che non odia gli israeliani come quei brutti palestinesi. Gli israeliani proprietari del sito devono aver scritto il copione” dice in alcune tavole la Glidden a proposito di una tappa tra i beduini, altra popolazione più o meno reclusa ed esclusa dalla terra d’Israele.
Eppure nonostante le sue posizioni pacifiste, di sensibilità nei confronti dei palestinesi, di critica nei confronti del governo israeliano, l’autrice non va oltre un infantile taccuino di viaggio, fatto di racconti spesso prolissi, confusi, che spiegano uno stato d’animo piuttosto in contraddizione. E’ onesta in quello che racconta e nei suoi tormenti ma rimane tutto molto superficiale. Io non penso di essere un becero anti-israeliano. Nessuno nasconde la complessità del vivere in Israele. Ci sono diversi attivisti che meritano rispetto e che non si fanno prendere in giro dalla propaganda di governo, del popolo armato e assediato. Però esistono delle responsabilità diverse.
Esistono occupanti e occupati. E la Glidden oltre questo non va. Vede a malapena il muro. Forse non incontra manco un checkpoint, protetta dal tour operator che cerca di mostrare il volto migliore del paese. Quando ha la possibilità di andare a Ramallah per incontrare un giornalista (o attivista?) non ne avrà il coraggio. Così preoccupata dal non farsi fare il lavaggio del cervello, preoccupata che i suoi pregiudizi nei confronti del governo israeliano possano essere messi in discussione, Sarah Glidden non si accorge neanche che la propaganda ha fatto leva anche sui suoi pregiudizi più reconditi.