Quando stanotte, preda dell’insonnia, ho finito Tokyo Città Occupata, ultimo romanzo di David Peace, secondo della “Trilogia di Tokyo” dell’autore dello Yorkshire, mi sono sentito terribilmente sollevato. E’ stata davvero una lettura difficile, nonostante il fatto che noi fan dell’autore del Red Riding Quartet, siamo già abbondantemente abituati al suo stile ostico.
Uscito a quasi tre anni di distanza da Tokyo Anno Zero, lo scenario è sempre lo stesso: il Giappone post-bellico, ancora occupato dalle forze alleate. Il romanzo prende lo spunto da una vicenda realmente accaduta. Nel 1948 a Tokyo un falso medico, avvelena 16 persone impiegate di una banca per rapinarla. Di queste 16 soltano 4 si salveranno. Alla fine venne accusato un pittore più o meno affermato che morirà in carcere negli anni ’80, nonostante la mobilitazione per salvarlo. Evidente all’epoca, come negli anni successivi, come il mancato riconoscimento da parte dei superstiti fosse una prova più che concreta della sua innocenza.
“Questo è un Paese Occupato, questa è una città occupata. Possono fare quello che vogliono, quando vogliono, a chi vogliono, come vogliono. E una città occupata e questa è una montatura il nemico di ieri è il nemico di oggi NELLA SPERANZA CHE RITORNERAI Lui domanda: Allora mi stai dicendo che questo Hirasawa è innocente ora la battaglia è finita la guerra sta per finire PER PARLARE CON ME, PER DIRMI QUALCOSA Chiaro che lo è sospiro, è che sono disperati.”
Nell’onirico romanzo di Peace, ci troviamo alle prese con uno strampalato scrittore, che partecipa ad una seduta spiritica, per entrare in contatto con 12 dei protagonisti. Nel buio della sala, illuminata dalle 12 candele che via via si spengono successivamente alle storie narrate: il presunto assassino, un detective, un giornalista, soldato americano e altri, sullo sfondo gli inquietanti esperimenti contro la popolazione cinese e lo spettro della Guerra Batteriologica. Tutti sanno, nessuno parla e chi lo fa, mente. Creando confusione e alienazione, in chi legge. Un romanzo ostico, sperimentale, doloroso tanto quanto il precedente ma che non mi ha convinto. Il senso di sollevatezza finale la dice tutta. Questa volta Peace non mi trasporta e non mi esalta, ma può succedere. Forse non ho colto la tragicità del tutto, forse non sono pronto per certe sperimentazioni, fatto sta che mi è rimasto ostile per tutte le pagine e solo in poche occasioni mi sono davvero sciolto nella lettura. Non ho colto i riferimenti a Kurosawa né a Rashomon, come ho intercettato soltanto a tratti la spiritualità e i riferimenti alla cultura giapponese.
Rimane chiaro il dolore di una città, la Tokyo del 1948, invasa da ratti e militari stranieri, una popolazione muta e avvilita, nascosta e incapace di reagire all’occupazione. Non c’è Resistenza, non c’è reazione, solo sofferenza.
“Sono attratto dai misteri e credo che i complotti siano nella natura del capitalismo. Noi tutti viviamo in città occupate, costantemente controllati. E tutti siamo corrotti dalle manifestazioni del potere”